Già
Cicerone e Orazio, 100 anni prima di Cristo,
sono ghiotti di làgana (termine
che deriva dal greco laganoz da cui
il latino làganum che designava
una schiacciata di farina, senza lievito,
cotta in acqua, la forma plurale làgana
indica strisce di pasta sottile fatte in
farina e acqua, da cui derivano le nostre
lasagne). Ma fu Apicio a lasciarci la prima
vera documentazione sull'esistenza di un
composto assai simile alla nostra pasta;
nel suo "De re coquinaria libri"
infatti egli descrive un timballo racchiuso
entro làgana. Dal 200 d.C.
fino almeno all'anno mille non abbiamo più
notizie documentate. Si pensa che la Pasta,
intesa non già come composto generico,
ma proprio come maccheroni, sia originaria
della Sicilia: nella località di
Trabìa, presso Palermo, si fabbricava
un particolare cibo di farina in forma
di fili, chiamato con il vocabolo arabo
"itriyah". Ed ancor oggi
a Palermo si conoscono i vermicelli di Tria.
Che siano anche gli spaghetti un'invenzione
araba? Il fatto che in arabo esistesse il
termine per designare questo cibo in
forma di fili ce lo lascia supporre,
ma nessun documento ce lo conferma. Il termine
maccheroni non ha un'etimologia precisa.
Spesso usato inizialmente per designare
paste variamente ripiene, sul modello dei
nostri ravioli, troviamo poi il vocabolo
macaronis impiegato per indicare
piccoli gnocchetti di semola (1279, documento
del notaio Ugolino Scarpa), del tipo dei
"malloreddus" sardi. Il
filologo Agnolo Morosini (circa 1400), ricercando
sulle probabili origini della parola ci
riconduce a due possibili etimologie: al
basso greco macaria, che indicava
un impasto di orzo e brodo, oppure al greco
classico macar cioè felice,
beato e quindi cibo dei beati. Fino
al Settecento esiste comunque una gran confusione;
i tipi diversi di pasta vengono etichettati
normalmente come maccheroni finché,
i napoletani, divenuti mangia maccheroni,
si appropriano del termine e lo usano quasi
esclusivamente per identificare paste lunghe
trafilate: ormai i maccheroni rientrano
nell'alimentazione pressoché quotidiana
del popolo, intesi come cibo semplice, povero,
ma soprattutto nutriente e veloce, quasi
un fast-food ante litteram. Intorno agli
inizi dell'Ottocento le prime fotografie
mostrano i maccheronari agli angoli delle
strade intenti a cuocere in enormi pentoloni
la vivanda e a servirla, appena cosparsa
di formaggio grattugiato ed insaporita di
pepe, ai viandanti che mangiano davanti
al banco senz'altro ausilio che le mani.
Da questo momento in poi i maccheroni intesi
come pasta lunga, tonda e piena, cominceranno
ad essere chiamati spaghetti e ad identificare
non più soltanto i napoletani, ma
tutto il popolo italiano.
CHI HA INVENTATO
GLI SPAGHETTI?
Correva l'anno 1279 quando il notaio Ugolino
Scarpa, elencando ciò che il milite
Ponzio Bastone lasciava in eredità,
cita tra le altre cose "bariscella
una plena de macaronis" (un certo pieno
di maccheroni). Ancor prima, nel 1244, un
medico bergamasco promette ad un lanaiolo
di Genova che l'avrebbe guarito da un'infermità
alla bocca se egli non avesse mangiato né
carne, né frutta, né cavoli,
né pasta: "... et non debes
comedare aliquo frutamine neque de carne
bovina nec de sicca neque de pasta lissa
nec de caulis..." (Roberto S.Lopez
"Su e giù per la storia di Genova").
Marco Polo torna a Venezia nel 1292! Il
confronto di queste tre date chiarisce da
solo ogni dubbio residuo: la pasta non fu
invenzione cinese, gli italiani la conoscevano
già prima che l'eroe de Il Milione
tornasse dal suo avventuroso viaggio. Allora
furono veramente gli italiani ad inventare
la pasta? Pare assai azzardato cercare di
imputare a tutti i costi l'invenzione della
pasta perché, a nostro avviso, di
invenzione non si tratta, ma piuttosto del
naturale sfruttamento di una materia prima
assai diffusa. Il frumento era conosciuto
circa 10.000 anni fa e, quando si scoprì
che, frantumandone i chicchi, se ne poteva
ricavare la farina, gli uomini incominciarono
anche a produrre i primi impasti che, cotti
su pietre roventi, davano sottili focacce,
il famoso pane àzimo. Dalla cottura
del composto farina-acqua sulle pietre,
alla bollitura in acqua il passo è
breve e naturale. Le più antiche
testimonianze su formati di pasta cotti
in acqua risalgono infatti a 3000 anni a.C..
Famosi i rilievi in stucco della Grotta
Bella, tomba etrusca del IV sec. a.C., che
riproducono l'interno di una casa: ai due
pilastri centrali sono appesi, tra l'altro,
la spianatoia, il matterello, la rotella
dentata ecc.
Nella sua formulazione più semplice
dunque la pasta è cibo antichissimo,
che ebbe origini del tutto indipendenti.
Non ci sembra perciò giusto parlare
di "invenzione" quando ci si riferisce
ad un alimento la cui produzione ed il consumo
sono naturali conseguenze dell'evoluzione
della civiltà dei popoli. Ciò
che comunque resta certo è che non
fu Marco Polo a insegnarci a mangiare gli
spaghetti! Ma non furono nemmeno i napoletani
a dar origine alla pastasciutta. I maccheroni
non sono nati a Napoli, ciò è
storicamente accertato, ma in questa città
hanno ricevuto senz'altro la loro massima
esaltazione popolaresca: l'innata sapienza
gastronomica del napoletano, fatta di entusiasmi,
di intuiti e di sentori, ha subito accolto,
arricchito e fatto proprio questo cibo.
Tanto che, alla fine del '600, esso diventerà
la base dell'alimentazione quotidiana popolare
e, trasformando il napoletano da mangiafoglia
a mangiamaccheroni, come dice E.Sereni,
originerà una simbiosi inscindibile.
I MACCHERONI NELLA
LETTERATURA
E' inevitabile a questo punto che il pensiero
vada, quasi immediatamente, alla poesia...
maccheronica. Questo genere letterario,
perché di ciò si tratta, già
affermato tra il 1400 ed il 1500 nell'ambiente
goliardico padovano, ebbe il suo massimo
esponente in Teofilo Folengo, nato a Mantova
nel 1491 e conosciuto in arte con lo pseudonimo,
che egli stesso usava, di Merlin Cocai.
L'originalità delle sue opere sta
nell'uso di un linguaggio, appunto maccheronico:
un misto di parole latine e italiane con
desinenze latine; definito maccheronico
perché grossolano e piuttosto pasticciato,
in contrapposizione al linguaggio accademico.
D'ora in poi l'aggettivo maccheronico starà
ad indicare un'azione svolta in modo confusionario
e facilone, poco ortodosso. La sua raccolta
di opere Maccheronee uscì postuma
nel 1552. Dal Settecento in poi il piatto
di maccheroni ispira una quantità
di autori che ne fanno menzione in sonetti,
canzoni, poemi e cantilene.
Giacomo Casanova componw a Chioggia un sonetto
in onore dei maccheroni (1734) e ne fa una
tal mangiata che viene subito incoronato
Principe dei Maccheroni. Intanto, o poco
più tardi, a Napoli il popolo canta:
Chi mogliera vuol pigliare
E fan buono il desinare,
Deve fare un calderon
Tutto pien di Maccheron.
Ma
l'opera principe, sull'argomento, è
costituita da Li Maccheroni di Napoli, poema
giocoso di Antonio Viviani, pubblicato nel
1824. L'opera è rilevante ai nostri
fini prima di tutto perché in essa
appare per la prima volta la parola "spaghetto",
poi perché sono illustrate, con linguaggio
poetico, le varie fasi di lavorazione della
pasta, dalla farina al maccherone, dando
grosso modo un'idea della reale situazione
napoletana dell'epoca.
Gran divoratore di maccheroni, anche se
nulla scrisse su di essi, fu Giacomo Rossigni.
Tanto che si racconta, fra i numerosi aneddoti
suscitati dalle sue passioni gastronomiche,dopo
il fiasco del Barbiere di Siviglia a Roma
nel 1816, egli fu invitato dall'impresario
Barbaia nel suo palazzo. Qui gli fu offerta
la più completa ospitalità
a patto che, entro sei mesi, il Maestro
avesse consegnato una nuova opera, l'Otello.
Per mesi il compositore mangiò e
bevve in allegra compagnia senza minimamente
pensare di mettersi all'opera finchè
l'impresario, stanco di non vedere alcun
risultato, lo rinchiuse nella sua stanza,
da dove non lo avrebbe fatto uscire che
in cambio della nuova composizione. Dopo
24 ore Rossigni consegnava, dalla finestra,
l'ouverture dell'opera!
Egli si faceva arrivare i maccheroni solo
da Napoli ed in una lettera del 1859, lamentandosi
con un amico per il mancato arrivo di questi,
si firma G. Rossigni. Senza Maccheroni!!!
E' famosa invece la diatriba sorta, sempre
in merito ai maccheroni, tra Giacomo Leopardi
e i napoletani. Il cupo poeta di Recanati,
che probabilmente mai mangiò maccheroni
in vita sua, dileggia l'amore che i napoletani
hanno per tal cibo in poche righe de "I
nuovi credenti", composizione del 1835:
...tutta
in mio danno
s'ama Napoli a gara alla difesa
de' maccheroni suoi; ch'ai maccheroni
anteposto il morir troppo le pesa.
E
comprender non sa quando son buoni,
come per virtù lor non sian felici
borghi, terre, province e nazioni.
Ma
subito i napoletani con la 'maccheronata'
di Gennaro Quaranta rispondono per le rime:
E
tu fosti infelice e malaticcio
O sublime Cantor di Recanati,
che, bestemmiando la Natura e i Fati,
frugavi dentro te con raccapriccio.
Oh mai non rise quel tuo labbro arsiccio,
né gli occhi tuoi lucenti ed incavati,
perché... non adoravi i maltagliati,
le frittatine all'uovo ed il pasticcio!
Ma
se tu avessi amato i Maccheroni
Più de' libri, che fanno l'umor negro,
non avresti patito aspri malanni...
E vivendo tra pingui bontemponi,
giunto saresti, rubicondo e allegro,
forse fino ai novanta od ai cent'anni.
Nel
1860 i maccheroni come emblema del popolo
napoletano, sono protagonisti di un famoso
aneddoto dovuto all'imperatrice Eugenia.
Durante una festa cui partecipava l'ambasciatore
piemontese a Parigi, Costantino Nigra, elle
ebbe la trovata di far rappresentare, una
gustosa scenetta dal suo ciambellano. Sommariamente
truccato alla Cavour l'uomo siede a tavola.
Gli vengono ammaniti piatti evidentemente
allusivi alla situazione storica del momento:
stracchino e gorgonzola (allusione all'annessione
della Lombardia), parmigiano (ducato di
Parma) e mortadella di Bologna (Emilia),
dopo l'aleatico vengono servite arance siciliane
e tutto il buon uomo divora di gusto finchè
gli servono, per ultimo, un bel piatto di
maccheroni che egli invece (su istruzioni
dell'imperatrice) rifiuta fermamente: "No,
per oggi basta, conservatemi il resto per
domani..." La cosa fu subito riferita
da Nigra al vero Cavour che, percependo
immediatamente l'allusione dell'imperatrice
, disposta a cedere la Sicilia, ma non Napoli,
rispose: I maccheroni non sono ancora cotti,
ma in quanto alle arance che stanno qui
sulla mensa, siamo disposti a mangiarle".Poco
dopo si era all'Unità d'Italia e
Napoli stava per essere annessa al regno,
allora Cavour scriveva: "I maccheroni
sono cotti e noi li mangeremo".
Con i primi del Novecento la letteratura
che ci riguarda assiste ad un decadimento
dei maccheroni, sia come argomento letterario,
sia come termine, comunemente sostituito
dai vocaboli come pastasciutta o spaghetti.
E' famosa l'avversione di Filippo Tommaso
Marinetti per la pasta, dettata non tanto
da antipatia personale, quanto da atteggiamento
politico di origine intellettuale suggerito,
pare, dallo stesso Mussolini. Comunque,
nel Manifesto della cucina futurista egli
scrive: "crediamo anzitutto necessaria
l'abolizione della pastasciutta, assurda
religione gastronomica italiana".
Ma dopo essere stato sorpresomin un ristorante
a divorar spaghetti viene subito deriso:
Marinetti dice "Basta,
messa al bando sia la pasta".
Poi si scopre Martinetti
Che divora gli spaghetti.
A
partire dal Cinquecento la pasta valica
i confini strettamente italiani per conquistare
il mondo.
La troviamo prima di tutto in Francia, grazie
a Caterina de'Medici e al Platina che contribuirono
a diffondere la cucina rinascimentale italiana.
Non si sa invece esattamente come approdò
in Inghilterra, ma si sa che era ivi conosciuta
in quanto di maccheroni si parla in un dizionario
tecnico dell'epoca e nel Settecento erano
già così diffusi che una commedia
allora in voga nei maggiori teatri di Londra
si intitolava "The Macaoni".
All'incirca nello stesso periodo la pasta
compare anche in America, teoricamente ad
opera dello statista americano Jefferson
il quale, durante un viaggio in Italia,
imparò a conoscerla e ad apprezzarla
e, volendo introdurla nel proprio paese
si fece inviare tutti i macchinari. Più
praticamente però la diffusione si
ebbe grazie agli emigranti italiani che
caricavano di maccheroni le stive delle
navi destinate a portarli nel nuovo continente.
In realtà l'affermazione fu assai
rapida, se il protagonista di Yankee Doodle,
famosa ballata dei pionieri del '700, gira
per la città con un maccherone sul
cappello!
Oggi non si contano in America le Spaghetti-House,
le preparazioni a base di spaghetti e le
ricette per cucinarli, in cui peraltro si
dichiara di seguire fedelmente l'autentico
metodo di cottura all'italiana.
LA PASTA,
IERI E OGGI
In Italia la pasta secca è tradizionalmente,
ed ora anche per legge, confezionata con
il prodotto della macinazione del grano
duro (Triiticum durum), appunto la semola.
Mentre l'altra importante specie di frumento,
cioè il grano tenero (Triticum vulgare)viene
usato per la farina, quindi per la confezione
casalinga della pasta all'uovo, del pane
ecc. Morfologicamente i due tipi di grano
non presentano differenze clamorose: il
chicco di grano duro è leggermente
più oblungo e d'aspetto quasi traslucido,
mentre il chicco di grano tenero è
opaco e tondeggiante. IL primo cresce nei
terreni assolati e rudi del Sud Italia,
quello tenero preferisce il clima più
umido e tranquillo della Pianura Padana.
Ecco quindi, per inciso, l'origine della
differenza dei consumi tra pasta secca al
Sud e pasta all'uovo al Nord.
Dai
tempi di Vitruvio fino a quasi tutto il
Settecento i molini rimasero pressoché
identici. Una macina in forma di ruota Era
posta di piatto sul terreno e restava immobile,
perciò detta la dormiente, su di
essa ruotava un'altra macina identica, sempre
posta di piatto, ma forata al centro, la
girante. Al centro si versava il grano e
alla periferia si raccoglieva il prodotto
della macinazione.
La cosiddetta gramola era poi la macchina
più caratteristica ed importante
del pastificio, fino all'introduzione delle
presse continue. Essa era costituita da
una vasca rotonda di legno e da una mola
di pietra posta in senso verticale e originariamente
fatta ruotare a forza di braccia. Nel bacile
veniva disposta la semola a ponticello,
si scavava un piccolo cratere e vi si versava
acqua tiepida. L'impasto iniziava con le
mani finchè la semola era sufficientemente
intrisa d'acqua, poi proseguiva con la mola,
ruotata a mezzo di una stanga, camminando
intorno al bacile. Questo procedimento era
in uso soprattutto a Genova, aveva però
il difetto, nel caso del grano duro, di
stritolare i chicchi sotto il peso della
mola, i quali perdevano così buona
parte della loro naturale vetrosità,
dando un impasto un po' troppo elastico
e poco resistente.
A Napoli invece, la semola, posta in vasche
di pietra ad imbibita con acqua bollente
era dapprima impastata a forza di piedi.
Si proseguiva poi con la gramolazione: la
massa, trasferita in un bacile, era percossa
da un lungo asse di legno fissato ad un
lato, mentre all'altra estremità
sedevano tre operai che, alzandosi e sedendosi,
secondo tempi ritmati dal canto, facevano
premere la stanga sull'impasto. In questo
modo si saldavano l'un l'altro i granelli
di semola senza peraltro intaccarne il nucleo,
dando quell'impasto granulare che era il
segreto della brillantezza e della superiorità
qualitativa dei maccheroni di Napoli, Ottenuto
in un modo o nell'altro l'impasto, questo
veniva prelevato a piccole quantità,
introdotto nel torchio e pressato contro
la trafila, disco generalmente di bronzo,
bucherellato in vario modo, a seconda del
formato di pasta desiderato, attraverso
cui l'impasto è forzato ad uscire.
L'aumento
del consumo, e conseguentemente della produzione,
fu La molla che fece scattare le maggiori
innovazioni nei macchinari. Verso la fine
dell'Ottocento furono introdotte le prime
impastatrici meccaniche che sostituiscono
il calpestio degli operai.
I vecchi torchi cominciarono ad essere sostituiti
con le presse idrauliche, dove il composto
era spinto contro la trafila non più
da una vite fatta girare a mano, ma da un
pistone azionato appunto idraulicamente.
Benché ciò risparmiasse tanta
fatica all'uomo non si era ancora risolto
il problema delle interruzioni di lavoro:
una volta pressato l'impasto e perciò
giunto a fine corsa il pistone, questo doveva
essere riportato indietro per poter caricare
nuovamente la macchina. Ma nel 1917 F.Sandragné,
ispirandosi alla lavorazione dei mattoni,
costruì il prototipo di una macchina
in cui il pistone era sostituito da una
vite senza fine che lavorava all'interno
dell'impasto prelevandolo e pressandolo
continuamente contro la trafila, senza più
interruzioni.
Ma occorre arrivare al 1930 per assistere
alla vera rivoluzione, l'introduzione della
pressa continua che permette di impastare,
gramolare e pressare la pasta contro la
trafila senza interrompere il ciclo di lavorazione.
Fu
però solo con l'avvento dell'essicazione
artificiale che la produzione di pasta poté
valicare i confini artigianali e diventare
un prodotto industriale, realizzabile in
tutta Italia. Infatti prima d'allora, gli
spaghetti appena estrusi venivano raccolti,
appesi a lunghi bastoni di legno ed esposti
ad asciugare all'aria e al sole; in poche
parole erano affidati alla clemenza del
tempo e all'intuito di espertissimi operai
che dovevano esporre o ritirare la pasta,
in base alle variazioni del tempo e dell'umidità,
finché risultava perfettamente secca.
E' quindi evidente come fossero favoriti
quei pastifici localizzati in zone climaticamente
felici. Con le moderne celle di essiccazione
il problema non si pone più.
Gramola,
il torchi e le prime impastatrici sono ormai
oggetti da museo. In un moderno pastificio
ciò che colpisce, oltre l'asetticità
degli enormi ambienti, ingombri solo di
pochi grandiosi macchinari, è la
quasi totale assenza di personale. Solo
poche persone in camice bianco si aggirano
come medici nelle corsie di un ospedale,
con il compito di controllare che tutto
proceda bene. Dal chicco allo spaghetto,
tutte le trasformazioni sono automatizzate
e non necessitano di alcun intervento umano.
Proveniente
dal mulino dove il grano è stato
macinato, la semola giunge nel pastificio
vero e proprio, qui inizia la fase di idratazione
con acqua (la percentuale varia dal 30 al
35%), mentre l'impasto, cioè la gramolazione,
avviene sotto vuoto per ottenere un composto
deaerato, più resistente e privo
di bolle d'aria, perciò più
compatto e trasparente, ma soprattutto di
un colore più brillante. A questo
punto il composto, una massa colloidale
giallo ambrata, viene spinto, sempre all'interno
della stessa macchina, verso le lunghe trafile
che, dall'originaria forma a disco sono
passate a quella di lastre rettangolari
lunghe e strette, di qui escono finalmente
gli spaghetti.
Lunghi fili di pasta che, a metà
della loro lunghezza sono raccolti dalle
canne, gli antichi bastoni,di legno, sulle
quali si appoggiano; prosegue intanto l'estrusione
dell'altra metà della lunghezza totale
degli spaghetti (circa 2mt.). Infine un
taglio netto interrompe il filo, per riprendere
all'istante con la fuoriuscita di altri
spaghetti che saranno raccolti da altre
canne e così via. Ed è emozionante:
migliaia di spaghetti ancora morbidi e caldi
svolazzano appesi alle stecche, trasportati
lentamente verso l'enorme cella di essiccazione.
Qui, dopo varie interruzioni, per permettere
anche alla parte centrale più interna
di liberare il proprio contenuto di umidità,
essi sosteranno per circa 8 ore, fino a
ridurre il tasso totale di umidità
intorno a valori inferiori al 12,5% (massima
umidità consentita dalla legge).
Il processo di essiccazione, oltre a permettere
un'elevata conservabilità , ha come
scopo quello di stabilizzare la qualità
della materia prima, esaltandone i valori
organolettici e realizzando uno stato di
equilibrio tra amido e glutine (vedremo
più avanti il significato di queste
due parole) al fine di ottimizzare la qualità
e la tenuta in cottura.
Così
gli spaghetti, che abbiamo visto entrare
nell'essiccatoio teneri e oscillanti al
pur lento movimento delle canne, ne escono
secchi e dritti... come fusi. Passano poi
attraverso le taglierine che li ridurranno
della misura consueta. L'ultima fase consiste
nella confezione e nell'imballaggio. Il
principio è ovviamente identico per
gli altri formati di pasta.
DAL MESSISBUGO
A OGGI: EVOLUZIONE DEL GUSTO
Nel
1450 Maestro Martino, cuoco del Reverendissimo
Monsignor Camerlengo et Patriarca de Aquileia,
ci informa sul modo di preparare Maccaroni
romaneschi, Maccaroni in altro modo, Maccaroni
siciliani e Vermicelli nel suo' Libro de
arte coquinaria', si tratta di vere ricette,
abbastanza precise, in cui gli impasti sono
preparati generalmente con farina e acqua,
i maccheroni vengono poi cotti in acqua
o brodo per tempi molto lunghi, anche due
ore, e conditi con burro, cacio e spezie
dolci. Da Maestro Martino trasse, quasi
indubbiamente, ispirazione il Platina che
scrisse il primo libro di cucina mai stampato,
il' De onesta voluptate ac valetudine' (prima
edizione, datata, in latino 1475). Qui infatti
si ritrovano le ricette per preparare i
maccheroni (che il Platina chiama esicium)
assai simili a quelle di Maestro Martino.
Ma il' De onesta voluptate' ebbe maggior
fortuna, nel 1505 era già stato tradotto
in francese contribuendo così a diffondere
oltralpe il gusto italiano.
Nel Cinquecento la produzione e la vendita
di pasta erano talmente diffuse che il prezzo
comincia ad essere calmierato, non è
però ancora cibo popolare, come dimostrano
i testi di cucina, tutti rivolti ad altri
personaggi.
Verso la fine del secolo le ricette riguardanti
i maccheroni si arricchiscono di ingredienti,
diventando anche più precise come
quantitativi, come confermano le ricette
del' Libro Novo'... di Cristofaro Messisbugo,
scalco presso la corte del Cardinale Ippolito
d'Este ai tempi di Ludovico Ariosto. Con
ciò si intende che i maccheroni,
a quel tempo, erano cibo assai aristocratico,
destinato a mense cortigiane. Anche il trattato
gastronomico di Bartolomeo Scappi, l'"Opera"
(1570), è indirizzato agli ambienti
di corte; le sue ricette sono molto dettagliate
nella descrizione degli ingredienti e dei
procedimenti, ma soprattutto egli evidenzia,
finalmente con nomi diversi, i vari tipi
di pasta: tagliatelli, maccaroni, maccheroni
detti gnocchi. Non importa se poi i maccaroni
alla romanesca differiscono dai tagliatelli
solo per la sfoglia leggermente più
spessa tagliata con il ferro da maccheroni
anziché con il coltello! Infine con
lo Scappi si riducono notevolmente i tempi
di cottura, dalle due ore consigliate fino
ad allora, si giunge alla mezz'ora necessaria
per cuocere a puntino i maccaroni alla romanesca.
I primi ingredienti usati per condire i
maccheroni erano comunque sempre dolci:
miele, spezie dolci, zucchero e cannella.
Riferendoci ad essi però,non è
possibile parlare di condimenti veri e propri
perché questi ingredienti venivano
aggiunti così com'erano, senza alcuna
preventiva preparazione o cottura. L'unico
elemento salato, da sempre tradizionalmente
presente, anche con i condimenti dolci,
è il formaggio, sia esso generico
cacio, provolone o parmigiano; non per niente
s'usa dire "come cacio sui maccheroni"
per significare due cose estremamente ben
accoppiate. Insieme al formaggio compare
spesso anche il burro, unito fresco ai maccheroni
appena scolati, oppure aggiunto all'acqua
di cottura per renderla più saporita
nei giorni di magro, quando non si poteva
usare brodo di carne.
Dagli insegnamenti di Maestro Martino, del
Platina, di Cristofaro Messisbugo e dello
Scappi, che riassumono pressappoco gli usi
gastronomici tra la fine del XV e la fine
del XVI sec., rileviamo che, al contrario
di quanto accade oggi, svariati erano i
modi di cuocere la pasta, o meglio gli elementi
in cui questa poteva essere cotta, mentre
i condimenti erano sempre gli stessi. Le
loro ricette insegnano a cuocere i maccheroni
in grassi brodi di carne o di capponi oppure,
nei giorni di magro, in acqua salata resa
più saporita e morbida dall'aggiunta
di burro fresco, o addirittura in latte
di mandorle zuccherato o in latte di capra;
la vivanda risulta così già
saporita e dopo averla scolata sarà
sempre condita con burro, cacio e spezie
dolci e, più tardi, con formaggio,
zucchero e cannella.
E' solo a partire dal Settecento che s'incomincia
ad avere notizia di condimenti salati, non
solamente a base di burro e formaggio.
La storia economica del '700 genovese di
Giulio Giacchero ci parla, per esempio,
di trenette avantagé condite con
il pesto, che rappresentavano il piatto
di festa delle famiglie liguri di tale epoca.
E' a tutti nota la storia del pomodoro,
e si sa che esso fu introdotto in Europa
dopo la scoperta dell'America, ma è
probabile che il suo uso fosse, anche dopo
di allora, piuttosto limitato in cucina.
Infatti le prime ricette che lo menzionano,
al di là dei testi puramente letterari
che ne fanno cenno, risalgono ad un manuale
del 1705 di Francesco Guadentio Il Panunto
Toscano, dove peraltro il pomodoro insaporisce
altre verdure, ma non è ancora usato
per condire i maccheroni. Nella stessa Napoli,
che sarà poi la patria dei maccheroni
con la pummarola, la pasta viene ancora
popolarmente mangiata appena spolverizzata
di formaggio. La situazione rimarrà
tale fino almeno al 1830: le cronache del
tempo, tratte dal "Penny Magazine of
Useful Knowledge" e la stessa iconografia
dell'epoca ribadiscono il concetto del cacio
e maccheroni, mostrando, accanto ai calderoni
dove questi son cotti, grandi bacili con
piramidi di formaggio grattugiato appena
striate da righe nere di pepe. I maccheroni
cotti al dente, sono estratti dall'acqua
bollente con un forchettone (guai a scolarli)
ed immediatamente insaporiti con una manciata
di formaggio. Il sugo, o meglio 'o sughillo',
quello di carne, con o senza pomodoro, è
un lusso che costa caro e che poche persone
si permettono.
La prima vera ricetta in cui il pomodoro
è abbinato alla pasta, in un matrimonio
che rimarrà insolubile, è
del 1839 ed è tratta dall'appendice
Cucina casereccia in dialetto napoletano
alla seconda edizione della Cucina teorico-pratica
di Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino
(1787-1860).
Vermicelli
con lo pommodoro
Piglia rotoli 4 (Kg. 2,760) de pommodoro,
li tagli in croce, li levi la semenza e
quella acquiccia, li fai bollire, e quando
si sono squagliati li passi al setaccio,
e quel sugo lo fai restringere sopra al
fuoco, mettendoci un terzo (gr.275) di sugna,
ossia strutto di maiale. Quando quella salsa
si è stretta giusta bollirai 2 rotoli
(Kg.1,380) di vermicelli verdi verdi (tipica
espressione napoletana per significare al
dente) e scolati bene, li metterai in quella
salsa, col sale e il pepe, tenendoli al
calore del fuoco, così s'asciuttano
un poco. Ogni tanto gli darai una rivoltata,
e quando son ben conditi li servirai.
Immediatamente appresa la lezione i napoletani
insegneranno al mondo come condire la pastasciutta.
E non ci impiegheranno molto tempo se nel
1855 Gioacchino Rossigni, che napoletano
non è, dando la versione dei maccheroni
che egli stesso era solito preparare, e
per cui pare andasse famoso, dice "Perché
i maccheroni riescano appetitosi occorre
buona pasta, ottimo burro, salsa di pomodoro
e parmigiano eccellenti, e una persona intelligente
che cuocia, condisca e serva".
Con la diffusione costantemente crescente
della pasta, ogni regione, ogni città,
ma in particolare ogni famiglia dà,
di volta in volta, la propria interpretazione
personale del piatto di pastasciutta, al
di là di qualsiasi ricetta codificata.
Avremo così il piatto unico, in cui
gli spaghetti sono arricchiti con condimenti
sostanziosi a base di carne, pesce o verdure;
mentre sughi più semplici e leggeri
sono l'ideale quando essa costituisce il
primo piatto. Trattandosi in ogni caso di
un veicolo neutro, qualsiasi ingrediente
può esservi accostato ed esserne
esaltato, purchè... il buon senso
sappia dominare la fantasia e si rispettino
comunque alcune regole fondamentali.
I formati di pasta lunghi tondi e sottili
richiedono sughi decisi, dal sapore pronunciato
e ben definito, a base di olio: mentre la
delicatezza di condimenti a base di panna,
besciamella, o comunque di salse ben legate
meglio s'addice a formati di pasta corta
o alla pasta all'uovo.
Pensiamo a un piatto di spaghetti: un sugo
troppo denso e cremoso priverebbe lo spaghetto
della sua naturale scivolosità, favorendo
l'incollamento l'uno con l'altro e quindi
la creazione di una massa troppo compatta.
E' poi la tradizione stessa che ha accoppiato
ad ogni formato di pasta il suo condimento
ideale; a chi verrebbe mai in mente di condire
delle orecchiette con la panna o delle tagliatelle
aglio e olio? Nessuna legge lo vieta, ma
l'esperienza insegna. A questo punto giunge
l'annoso dilemma del formaggio: va unito
alla pasta prima o dopo il condimento? Sebbene
ciò possa stupire molti benpensanti,
sono ammesse entrambe le soluzioni, cioè
una spolveratine di formaggio grattugiato
può essere aggiunta appena scolata
la pasta, oppure dopo che questa è
stata condita.
Sebbene l'accostamento pastasciutta - nouvelle
cuisine possa apparire un tantino azzardato,
in quanto si tratta di confrontare due fedi
gastronomiche talmente lontane sia come
origini che come contenuti, da sembrare
inconciliabili tra loro, ciò non
di meno è possibile vedere l'una
attraverso l'ottica dell'altra. La base
della nouvelle cuisine, riassumendo il concetto,è
una cucina che si rinnova ogni giorno, partendo
sempre da elementi freschissimi e della
migliore qualità. Le lunghe cotture
e le preparazioni ridondanti di grassi e
strabocchevoli di intingoli sono sostituite
con cotture preferibilmente a vapore, o
quando ciò non è possibile,
con brevi scottate; le salse sono preparate
quasi sempre a freddo e grandi quantità
di fresche verdurine appena lessate hanno
la duplice funzione di completare il cibo
e di guarnire il piatto. Un'interpretazione
della pasta secondo i dettami della nouvelle
cuisine può allora significare per
esempio che i nostri famosi e stupendi spaghetti
al pomodoro possono essere conditi, anziché
con una salsa ristretta per mezz'ora e più
sul fuoco e quindi densa di grassi e scura
di colore, perché il pomodoro si
è ormai concentrato, con del pomodoro
crudo, lasciato in infusione per un certo
tempo in ottimo olio d'oliva. La pastasciutta
apparirà meno colorata, ma non per
questo meno saporita ed il risultato sarà
comunque un piatto tanto semplice quanto
eccellente. Come spesso accade ad ogni modo,
la soluzione, a nostro parere, sta nella
via di mezzo e nell'applicazione delle regole
- cum grano salis - cioè con la mediazione
del buon senso.
Perciò in questo contesto la nouvelle
cuisine può essere tranquillamente
accostata alla pasta, se essa viene interpretata,
nei suoi contenuti essenziali, come tendenza
verso una cucina più leggera, con
tempi di cottura molto brevi, presenza minima
di grassi, ingredienti sempre freschissimi,
grande uso di verdure ed erbe di stagione.
Ciò significa oltretutto tenere presenti
le esigenze attuali dell'organismo umano,
indubbiamente ridotte rispetto a quelle
di cent'anni fa, e la stessa evoluzione
del gusto che richiede continui aggiornamenti,
perché anche condire un piatto di
pastasciutta può essere un fatto
di moda.
(Tutte
le informazioni sono tratte da: La Cucina
italiana "La pasta")
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